Il linguaggio proibito di Umberto Nigi
I dipinti di Nigi rivelano istantaneamente un insospettabile rigore che si estrinseca in una preziosa sintesi filologica di forme oniriche e di tracce simboliche e altamente suggestive. Di getto, elimina il superfluo, purificando i suoi cartoni – in un corposo recupero di ancestrali simbologie – di quei solidi richiami figurativi che avevano caratterizzato la produzione giovanile.
Egli condensa e distilla essenziali immagini dalla stringente carica coloristica – limita la tavolozza a pochi colori applicandoli sui cartoni strato su strato fino a comporre una spessa superficie, sulla quale si innestano imperiosi rilievi spinti al limite di una consistente ed emozionante stratificazione cromatica che dialoga poderosa con l’osservatore grazie a lineari formule estetiche offerte in una incalzante rete geometrizzante fissata sopra le tinte di base.
Nigi capisce che è necessario conservare l’integrità del campo – non deve esistere un punto centrale, o laterale, di focalizzazione, infatti le opere sono riempite di una tinta granulosa che si fa trama unificante, incoraggiando una netta e palese contraddizione tra l’illusione di una meditabonda, caliginosa profondità e la dura realtà di una compatta estensione pittorica. Opache nebbie di colore smembrato invitano l’astante in uno spazio quieto, equivalente metaforico del sogno; quasi esprimono una transitoria malinconia entro cui, spesso, finissime fasce verticali e orizzontali creano un mondo che abbandona qualsiasi oggetto.
Nigi presenta dei campi di tonalità prive di disegni e di spunti formali nei quali vive una sorta di indifferenziata sostanza suddivisa da diafane bande di cedevole ed elaborata tinta che fanno da eco naturale ai confini del piano del quadro. Queste si leggono come una sequenza episodica riproponibile all’infinito al di fuori di esse, in rinforzo delle grandi distese di sfumature dominate e ispirate da una incombente soggezione. La non-pittoricità, nella lezione di Nigi, concede all’occhio attento e sensibile di appagarsi in sensazioni non aride, non banali, mai generiche, concentrando l’attenzione dall’esperienza tangibile verso l’idea. L’interesse dell’artista di origine livornese è più verso il colore che al segno – immense e sollecite aree di massa coloristica prendono il posto dei lineamenti, i contorni e le forme si dichiarano sconfitti dallo spazio inteso come inconscia necessità di allargare la realtà fisica sino a diffonderla sul piano.
Egli, in concreto, vive e lavora con un’irrealtà di pensiero-azione, cercando di contenerla in uno sguardo delimitato (all’interno del quadro stesso) che si lascia sopraffare da un formidabile espandersi del colore. Vuol mostrare, dunque, campi corrosi da strisce concertate razionalmente che rappresentano la cifra di un codice a colori che può rimandare, in effetti, a una realtà anche ben sostanziale: tali linee idealizzano una mappa, una vera e propria cartina geografica in cui è l’immaginazione a dettare le regole, non più ostacolata dalle leggi del disegno canonicamente inteso – prende forza e valore l’atto in sé, intrinseco e assoluto, necessario e sufficiente.
Nel setacciare nuovi orizzonti, l’autore passa a fotografare scatti gestuali che appaiono come enormi ingrandimenti di antiche calligrafie o di primitivi graffiti che muovono verso l’autodistruzione – le sue composizioni trasmettono un inarrestabile senso di eccitazione poiché si riscalda un colore che non sembra mai comportarsi allo stesso modo, sembra variare ad ogni nostra rapida sbirciata alla sua epidermica essenza.
Gli interventi a completare, le correzioni, le sovrapposizioni ci regalano un artista che diviene frammento integrante del processo creativo: le opere finite sbocciano come ideale prolungamento della mente del pittore che agisce con colossali pennellate che non umanizzano rigide e aprioristiche strutture geometriche, ma, al contrario, pianificano plasticamente le emozioni suscitate in lui dallo spazio fisico al fine di comunicarle e confrontarle con le nostre emozioni e conoscenze di quello stesso spazio.
Andrea Baldocchi
Critico d’arte contemporanea e arti visive